Ho riacceso lo Smartphone

Mi è sempre piaciuto avere uno smartphone.

Con lo smartphone puoi fare un sacco di cose: scattare foto, scrivere un messaggio ai tuoi amici su Whatsapp, scrivere un SMS ai tuoi amici (o alla mamma), scrivere un messaggio ai tuoi amici dell’est su Viber, scrivere un messaggio ai tuoi amici su Facebook, pubblicare in bacheca su Facebook qualcosa, pubblicare una foto su Facebook, pubblicare una foto su Instagram, pubblicare un articolo sul tuo blog, condividerlo su Twitter, condividere la condivisione da Twitter a Tumblr a Facebook passando per Buffer. Puoi leggere i giornali, gli articoli dei giornali in inglese in italiano e in urdu. Puoi guardare video scemi su Youtube, video intelligenti su Vimeo, video scemi su Vimeo, video intelligenti e film in streaming quando non bloccano i siti. Puoi guardare siti porno video porno contenuti ambigui buffi ridicoli seri rivoltosi intelligenti intellettuali. Puoi scaricare delle app a caso e vedere come funzionano. Puoi fare i conti con la calcolatrice scaricare una calcolatrice con un nuovo layout segnarti gli appuntamenti sul calendario farti un selfie specchiarti usare la torcia scrivere gli appunti con il pennino se hai un Note. Prendere note prendere appunti registrare una conversazione una telefonata fare un video a un vecchio che cade dal tram e alle persone che fanno la foto al vecchio che cade dal tram e postarlo dicendo che le persone fanno le foto anziché aiutare la gente.

ScreenshotNote

Ecco come si presentava la schermata del mio cellulare dopo tre settimane di inutilizzo…

Da piccola avevo un diario. Ci scrivevo cose come i miei pensieri, le cose che mi erano accadute, le cose che avrei voluto dire e che non avevo detto, ci appiccicavo foto e se avessi potuto, beh, probabilmente ci avrei anche incollato dentro un bel video. Ma non era possibile. Questo diario, si dà il caso, non lo leggeva mai nessuno. Innanzitutto, perché era logisticamente abbastanza difficile. Avrei dovuto dire, ehi tu, vieni qui a casa mia a leggere il mio diario. Con alcune amiche devo averlo fatto. Ma solo alcune parti di diario, certo non tutte. In ogni caso, rimaneva una cosa molto intima e personale, scrivevo solo e unicamente per me stessa e soprattutto c’era una specie di sacra vergogna che mi impediva di rendere pubblico in qualsiasi modo i miei sentimenti e i pensieri più intimi. Ora, con la diffusione spasmodica del web, scrivere pensieri intimi e pubblicare foto e condividere citazioni è diventata una pratica iperdiffusa. Ognuno scrive i propri pensieri intimi (o quelli che ritiene siano tali), scrive su Facebook ciò che vorrebbe dire a qualcuno, ma che non ha detto, si lamenta di gente contro cui non avrebbe mai il coraggio di lamentarsi, e tutto questo amplificato per milioni di pagine di milioni di utenti che interpretano a modo loro spesso non vedono oppure danno giusto uno sguardo e condividono giudicando non giudicando ridendo in un chiasso infernale che è diventato l’internet di oggi.

Un tempo internet era un territorio remoto, dove potevano entrare solo in pochi e il modem gracchiava rumorosamente e il telefono di casa non funzionava. E le chat si facevano da MS-DOS e ti ritrovavi a parlare con gente dall’altra parte del mondo che sembrava davvero un miracolo. La stessa sensazione di quando ci si trova in una landa desolata, un territorio tutto da scoprire, e ci sei solo tu, il nulla e altri pochi avventurieri che si sono imbarcati per gli stessi lidi. Ora internet è sovraffollato, è un’osteria di vecchia data da cui sono passati ormai tutti. Dall’America, dall’Europa e dall’Africa, tutti i continenti hanno un accesso a internet, tutti i device hanno il wi-fi, il computer il cellulare l’ebook reader l’orologio. E proprio come un territorio già scoperto da tempo, come ogni avventuriero che si rispetti, devo per forza affermare che internet ormai mi ha stufato. È una fonte di stress indescrivibile. Sarà perché ormai da tre anni ci lavoro, sarà perché ormai da troppo tempo ho tutto online. Da così tanto tempo che mi ero dimenticata la piacevole sensazione di calma e tranquillità che solo una vita analogica può riservare.

Giorni fa mi si è scaricata la batteria dello smartphone. Ovvero si è gonfiata in maniera un po’ preoccupante e poi ha cominciato a dare i numeri, cosa che è successa a un bel po’ di possessori del mio stesso modello di cellulare che per un istinto al politically correct che mi ha portato e mi porterà al fallimento nella vita, non nominerò. Da allora, ho provato subito un sospiro di sollievo. Innanzitutto, perché sapevo che era un problema unicamente legato alla batteria, e che quindi il cellulare non era da buttare. In secondo luogo, perché mi era già successa una cosa simile: il mio primo smartphone ha avuto vita breve, diciamo che l’ho perso anche se in realtà temo fortemente me l’abbiano rubato visto che mi trovavo in un bar. Ecco, in entrambe queste occasioni ho provato un senso di libertà e gioia infinita come mai mi era successo prima. Innanzitutto, non ho più ricevuto per diversi giorni alcun tipo di notifica push. Per chi non sapesse cos’è una notifica push, è quella meravigliosa iconcina di whatsapp di gmail di twitter di facebook di moovit di spotlime di trivago di booking di pinterest di wordpress che ti segnala che è arrivato un messaggio ti hanno menzionato su twitter hanno condiviso le tuo foto hai un nuovo follower su flickr il tram è in ritardo hanno ucciso un messicano a Parigi. Ecco, questa è l’essenza di una notifica push: una prolungata, costante, incessante flusso di informazioni non richieste. La verità è che, mi direte voi, è sufficiente disattivarle queste benedette notifiche, e accedere quando vuoi alle app che desideri. Sì lo so, è vero. Però è anche vero che, come dicevo all’inizio, avere uno smartphone è bellissimo.

Con lo smartphone ti puoi tenere costantemente in contatto con chi vuoi, con le persone che ami in qualunque parte del mondo siano. Puoi condividere con tutti i posti che stai visitando, le tue opinioni sui libri che hai letto, sui film che hai visto, sulla musica che hai scoltato. Puoi ritrovare la strada, puoi rintracciare un’amico, puoi guardare il telegiornale. Sì lo so, sembro una pubblicità però è vero: pensare questa cosa anche solo poche decine di anni fa, sarebbe stato fantascientifico, come essere in un futuro lontano, molto più avanzato e teconologico di adesso. Il problema è che la vicinanza fornita dallo smartphone e più in generale da tutti gli strumenti connessi a internet, è e rimane fittizia. Come se fossimo cani di Pavlov. È vero, possiamo sentire le voci delle altre persone, ascoltare musiche sconosciute, vedere le foto in tempo reale di paesi lontani. Ma in realtà siamo sempre qui, e l’acquolina in bocca del cibo meraviglioso che vediamo fotografato non la possiamo saziare, e le persone che amiamo e che ci parlano al telefono non le possiamo abbracciare, e tutte le news che leggiamo nell’app dell’ANSA che sentiamo nell’app TuneIn Radio che ci scorrono anche quando non vogliamo fra le notifiche di Twitter e nella home di Facebook, beh sono troppe, sono decisamente troppe da smaltire in un tempo così breve.

La conclusione? Non lo so. Ho riacceso lo smartphone oggi, dopo tre settimane esatte dall’ultima volta che l’ho usato. Devo ammettere che non ne sentivo la mancanza, anzi. Dovrei usarlo con più discrezione, probabilmente.

Ma so che il mondo non lo farà…

You asked me why I don’t use Facebook…

You asked me why, why I do not why I do NOT use Facebook so much that’s why, because before an exam about dictionaries there’s just one interesting thing that comes to my mind, why I do not use this fb that will keep my page if I die, that owns the rights of my pictures, this alphabet song, abc r, and r, r is for…